
Gianni S.
Mi guardo intorno. Parte curioso, parte inquieto: cerco i punti fermi della Ostia di un tempo.
Piazza Anco Marzio è solo pedonale, adesso. Eppure, c’era stato un presente in cui le auto passavano eccome ed era stato proprio qui che, da bambino, mi ero perso. Un pomeriggio d’estate, più di quarant’anni fa. Avrò avuto cinque, forse sei anni. Mi ricordo di aver lasciato la mano di papà e, in un attimo, la folla mi aveva inghiottito. La gente intorno, il rumore, la confusione. Il cuore mi batteva all’impazzata. Ero scoppiato a piangere. Poi, la sua voce. Calma. Rassicurante. Mi aveva chiamato. Avevo incrociato i suoi occhi verdi e gli ero corso incontro.
L’avevo abbracciato forte.
Che paura. Che sollievo.
Erano gli anni della villeggiatura da Sergio. Sergio era un signore rotondo, baffi folti, pochi capelli, una faccia buona. Sposato con Maria, una donna dolcissima. I nostri vicini di casa della Garbatella. Ci avevano sempre invitati nella loro casa al mare con la generosità di chi condivide il poco o il tanto che ha, senza mai farlo pesare. D’estate partivamo da Roma con l’eccitazione di una festa. La spiaggia, gli ombrelloni accatastati, il sole, la sabbia, il mare. I tuffi, le sdraio, la salsedine che incrostava la pelle, le scottature. Poi il pontile. Il krapfen alla crema da Paglia. Il gelato allo zabaione da Sisto. Ogni anno, alla chiusura delle scuole, non vedevo l’ora che Sergio ci invitasse a Ostia. C’era una bellissima sala giochi. Papà mi cambiava diecimila lire in gettoni e mi aspettava con calma, leggendo il giornale sulla panchina di fronte. Wonder Boy, Ghost’n’Goblins, Street Fighter. Non riuscivo mai a staccarmi.
L’adolescenza sarebbe arrivata più tardi, ma stavo comunque crescendo.
Papà amava fare lunghe passeggiate sul bagnasciuga. Mi piaceva accompagnarlo.
Mamma, leggermente più pigra, rimaneva con le sue riviste e i libri sotto l’ombrellone.
Camminavamo senza meta, spiaggia dopo spiaggia, provando a indovinare la vita delle persone che incontravamo una dopo l’altra.
Una volta, avrò avuto dodici anni, ci eravamo seduti sulla riva, con i piedi a mollo nell’acqua.
Papà non era uno che parlava molto. Era esemplificativo negli sguardi. E dietro quei suoi occhi verdi c’era un amore che non domandava parole. Quel giorno mi aveva accarezzato la testa. Poi, sorridendo, aveva detto:
“Tra qualche anno preferirai passare l’estate con una ragazza. Difficilmente avremo ancora momenti così. Ma ricorda che io e mamma ci saremo sempre per te.”
Avevo sorriso, ma non avevo ancora capito la portata di quel discorso. Per me, allora, non c’era niente di meglio che stare con lui. Eravamo andati avanti così ancora per qualche estate.
Poi erano arrivate prima Tiziana e dopo Sabrina, e nella routine di vita ero diventato un adulto. Mi ero trasferito a Milano. Poco più che ventenne. Avevo trovato lavoro in una società di marketing. Sentivo di essere sulla strada giusta. Dopo cinque anni in affitto in una bettola, ero riuscito anche a comprare un appartamento dignitoso. I weekend a Roma erano diventati sempre più rari, e quando tornavo scorgevo in papà un’aria stanca. Gli anni gli avevano rubato sempre qualcosa.
Con Sabrina ci eravamo sposati. E Martina era arrivata quasi per caso. Non l’avevamo cercata. Ero pieno di timori.
Qualche volta, quando domandi certezze, la vita risponde con più confusione.
Al Battesimo ci eravamo ritrovati tutti. Mamma si era innamorata subito di quella miniatura di donna. Papà, ancora più silenzioso, aveva gli occhi lucidi e sembrava spettatore assorto. Prima che ripartissero, avevo giurato che sarei andato a trovarli più spesso, ma sapevamo che non sarebbe accaduto.
Poi era arrivato marzo e la primavera. Stavo sistemando la cravatta quando aveva squillato il telefono.
Era mamma.
La voce spezzata.
Non c’erano spiegazioni da dare. Solo da capire quanto fosse grave.
Il cuore di papà aveva ceduto. Ma non era ancora andato.
Avevo preso le chiavi. Ero partito.
Quasi sette ore dopo, con le lacrime che mi bruciavano gli occhi, ero arrivato in ospedale.
Mamma mi aveva abbracciato.
Un abbraccio che non consola.
Il medico ci aveva parlato.
Papà si era svegliato, ma la necrosi era troppo estesa.
Non ce l’avrebbe fatta.
Ero entrato nella stanza.
Lui era lì. Le palpebre abbassate, la pelle pallida, il respiro appeso a un macchinario. L’impotenza di chi non può nulla.
Poi, come se mi avesse sentito, aveva aperto gli occhi. Quel verde dei suoi occhi mi diceva che era ancora lui.
Mi ero avvicinato.
L’avevo stretto, e lo avevo fatto con la stessa intensità che usavo da bambino, quando tornava la sera dal lavoro. Era così delicato.
Con uno sforzo enorme, mi aveva portato una mano sulla schiena.
Poi aveva sussurrato:
“Mi dispiace che sei corso qui con tutte le cose che hai da fare… mi dispiace tanto.”
Ero scoppiato a piangere.
Senza vergogna.
Senza filtro.
Solo conscio di tutte le volte che avevo rimandato una visita, e tutte le volte che era stato quel padre premuroso.
Volevo solo tornare il suo bambino.
Vederlo forte.
Riavvolgere il tempo.
Recuperare gli anni perduti.
Avevo ripetuto, non so quante volte, che mi dispiaceva. Che avrei dovuto passare più tempo con lui. Con loro.
Che gli volevo bene ed era stato un padre grandioso.
Poi c’era steso un sospiro profondo, mi sono sentito morire anche io.
Non so se mi abbia ascoltato.
Ma spero tanto di sì.
Spero che si sia portato quegli ultimi momenti insieme con sé.
Il ricordo ora sfuma, ma il dolore no. Con quello bisognerà imparare a convivere.
Di nuovo qui. A Piazza Anco Marzio.
Martina adesso ha tre anni.
È la sua prima volta a Ostia.
Camminiamo mano nella mano.
Compriamo due krapfen. Uno per uno.
Lo zucchero le imperla il viso.
La crema le sporca il vestito rosa.
Provo a pulirla con un fazzoletto alla fontanella.
Lei ride.
La lavatrice sistemerà tutto.
Mi siedo su una vecchia panchina. La prendo in braccio.
Si poggia sulle mie ginocchia.
Mi stringe.
Sorrido.
“Lo sai che una volta mi sono perso proprio qui? Mi ero spaventato tantissimo, ma nonno… nonno mi ha ritrovato subito.”